Chi invece voleva restare al fronte veniva
inquadrato in una nuova posizione.
Fra i persicetani che rimasero al fronte volontari
vi furono:
- Serrazanetti Alessandro (Tito, di Via Permuta); -
Forni Dario (Leo, dell'Accatà);
- Cotti Alberto (D'Artagnan, di Via Permuta)
Essi operarono, insieme agli alleati, come truppe
d'assalto, in concerto con questi.
Ritorno a Roma
Era
l'autunno avanzato del 1944, avvenuto il
congiungimento con le forze alleate, sentii il
bisogno di avere notizie di mio padre che viveva a
Roma assieme a mio fratello e molti zii, nonchè
altri parenti, di cui dalla fine di settembre del
1943, non avevo notizie.
Chiesi ad Armando un permesso per recarmi a Roma,
dando la mia parola che dopo una settimana al
massimo sarei rientrato.
Il Comandante mi concesse il permesso, ma dubitava
del rientro da me promesso e fu questo fatto che,
dopo la Liberazione, quando per la prima volta andai
a trovarlo a Pavullo, lo fece ricordare di me.
Partii quindi da Lizzano dopo aver promesso il mio
rientro agli amici partigiani della Morselli
(scettici anche loro) con mezzi di fortuna alleati
fino a Firenze, da qui era ripristinata la ferrovia.
Arrivai a Roma ovviamente senza armi e con vestiti
da partigiano, cioè pietosi.
Fui ospite per una settimana dei miei zii: Vandini
Mario, Cotti Amedeo e Cotti Iolanda, in Via Giulia.
Stavano tutti bene, mio padre e i miei parenti, solo
di mio fratello Enrico, che aveva risposto alla
chiamata del Gen. Graziani per la Repubblica di
Salò, non si avevano notizie.
Mi recai a salutare gli operai della O.M.I. (Ottica
Meccanica Italiana), tanti amici già al corrente
della mia appartenenza alla resistenza, qualcuno a
conoscenza anche di quelle fucilate a porta S. Paolo
in seguito all'8 settembre.
- Resta, sarai subito assunto - mi disse il
Direttore generale, unitamente a tutti i conoscenti.
Non potevo, avevo dato la mia parola.
La
settimana passò presto; per il rientro, dopo aver
chiesto informazioni, mi fu indicato l'ufficio
assistenza partigiani.
Credo fosse di ispirazione monarchica, fatto è che
mi fornì una serie di documenti scritti in inglese,
francese, italiano e con tanti timbri delle forze
armate alleate, su cui si chiedeva la collaborazione
di tutte le autorità con cui sarei venuto in
contatto nel viaggio di rientro.
Nell'ufficio, mentre attendevo che i miei
lasciapassare fossero pronti vi era un'altra
persona: un ferrarese di nome Luigi, il quale,
asserendo di avere militato nella Brigate Garibaldi
nell'Italia settentrionale voleva avvicinarsi al
fronte, per essere subito a casa appena liberato il
territorio ferrarese.
Furono rilasciati anche a lui documenti come i miei,
ci furono dati dei soldi per il viaggio e quindi
partimmo assieme in treno.
Giungemmo a Firenze e qui Luigi volle salutare un
suo amico il quale invitò entrambi a cena in uno dei
ristoranti più signorili di Firenze.
Si presentò come Ugolini ed aveva un grande e
lussuoso negozio di pelletteria.
Dopo cena, allontanandosi da me di alcuni metri,
Ugolini chiese a Luigi, indicando me: - Ma lui lo
sa? - al che lui rispose: - No, No! -
Ciò mi fece sospettare molto da quel momento.
Dormimmo in un lussuoso albergo, in due camere
separate, tutto pagato da Ugolini.
Al mattino, di buon'ora, c'incamminammo sulla
Porrettana; fatti una decina di chilometri ci fermò
una jeep con due militari di polizia americani;
chiesti i documenti ci comunicarono che, oltre
Firenze non si poteva andare e anche se i
lasciapassare erano in regola ci caricarono sulla
jeep portandoci in una caserma di carabinieri già
attivata in un paese vicino.
Il
maresciallo comandante ci trattò bene, mangiammo a
tavola con i carabinieri, solo a sera fummo chiusi
in camera di sicurezza e sul tavolaccio passammo la
notte.
Notai che il mio compagno non era abituato a
giacigli d'emergenza e quella notte mi accorsi pure
che era armato di pistola Beretta calibro nove, in
dotazione anche alle Brigate nere fasciste.
Queste cose, oltre al fatto di essere in possesso di
molto denaro, aumentarono in me la diffidenza e al
mattino non lo trattai più con amicizia.
Verso le dieci venne un ufficiale alleato, esaminò
tutti i nostri documenti e trovatili in regola ci
portò nuovamente a Firenze alla scuola Rossini -
Centro Assistenza Partigiani.
Entrammo da una porta e immediatamente ne uscimmo da
un'altra.
Siccome oltre Firenze non si poteva andare, perchè
era considerata zona di operazioni militari, presi
la strada della montagna, non più la Porrettana, ma
mulattiere, alla Partigiana.
Il mio compagno mi seguiva, ma non c'era più fra noi
quell'armonia di prima, si era accorto che il mio
comportamento nei suoi confronti era cambiato.
Piano, piano la distanza fra me e lui aumentava,
fintanto che lo persi, probabilmente avrà fatto
dietro-front.
A mezzogiorno circa arrivai a Sorgo Capanne ove
c'era il primo gruppo di PP (Polizia Partigiana).
Erano della formazione Morselli, la mia formazione.
Fu grande la festa che mi fecero; il giorno dopo ero
in formazione a Lizzano.
Andai a comunicare il mio ritorno al Commissario di
Brigata e anche ad Armando.
Tutti volevano sapere della situazione dell'Italia
libera, al che rispondevo:
- È una miseria, da disperazione, con tante, troppe
macerie.-
Quella situazione era penosa solo a descriverla!
Comunque, avevo mantenuto la promessa fatta ad
Armando.
Attacco al Belevedere
Erano già trascorse alcune settimane, da quando la
nostra brigata agiva in accordo con gli alleati dopo
l'avvenuto congiungimento e quindi non sussistevano
più problemi di vettovagliamento o di
munizionamento, anzi anche noi ormai eravamo dotati
di bazooka, arma a razzo, valida anche come
controcarro.
Il nostro comando ricevette l'ordine d'attaccare la
cima del Belvedere, da dove si potevano dominare due
versanti, quello Nord e quello Sud, suscettibile
quindi di ulteriori possibilità di avanzamento.
A notte s'iniziò, dopo un accurato esame di tutte le
armi personali, ci portammo, senza essere notati,
alla Querciola e qui rimase il grosso dei partigiani
in quella linea di postazioni già accennata, ossia
Casa Sassaia, Casa Rovina, Casa Assaretto, Casa
Buia, Casa Matti.
Un linea che, dal bivio della Masera, arrivava oltre
la Querciola.
Normalmente si eseguivano queste operazioni:
- scavare il terreno due metri per uno e mezzo con
la profondità di settanta, ottanta centimetri;
- piazzare una mitragliatrice dopo un accurato
mascheramento con frasche, in modo che il suo fuoco
potesse eventualmente incrociare quello di destra e
quello di sinistra;
- adibire alla postazione, oltre al mitragliere, un
aiutante e due partigiani di rinforzo;
- rifornire i partigiani con una o più casse di
munizioni ed una di bombe a mano.
Alla data del 12 dicembre 1944, quindi, quel tratto
di fronte che andava dallo Spigolino e scendeva
passando dalla Madonna dell'Acero, la Cà, bivio
della Masera, (fino ad un chilometro oltre la
Querciola passando sotto il monte Belvedere) era
tenuto esclusivamente da forze partigiane, brigata
Costrignano, prima Divisione Armando, poi brigata
Fulmine.
Noi della divisione Armando quel mattino eravamo in
postazione dal bivio fino oltre la Querciola.
Personalmente comandavo la formazione Morselli, al
lato della strada che dalla Querciola sale verso la
cima del monte dalla parte opposta della strada, ad
un centinaio di metri vi era in diverse postazioni
schierata la formazione dell'Alpino.
Quel mattino il comando alleato che si era insediato
a Lizzano, aveva programmato l'attacco alla cima del
Belvedere.
Era ancora buio quando sotto la Querciola oltre una
decina di mezzi corazzati alleati già avevano i
motori accesi ed appena fece giorno incominciarono
la salita verso la cima del monte; al seguito, per
l'attacco, vi era un gruppo di fanti neozelandesi
unitamente ad un numero consistente di partigiani
della Matteotti e del loro comandante Cap. Toni.
I nazisti non li aspettarono sulla cima, ma si erano
appostati e fortificati alla Corona (piccolo
agglomerato di case forse neanche una frazione),
avevano piazzato armi anticarro ed allestito un
consistente numero di postazioni per mitragliatrici
dominanti tutta la zona.
Noi avevamo l'ordine di mantenere la linea di
fronte.
Dopo circa mezz'ora sentimmo le mitragliatrici
tedesche che in diverse avevano aperto il fuoco
simultaneamente; distinguevamo dalla differenza dei
colpi le raffiche dei nostri che rispondevano al
fuoco nemico, poi si alternarono scoppi più possenti
(erano entrate in azione le artiglierie dei
corazzati alleati e dieci cannoni anticarro
germanici).
La battaglia si protrasse per un paio d'ore, poi gli
spari diminuirono di intensità. Sentimmo un rombo
avvicinarsi verso di noi: ci sdraiammo con le armi
pronte. Passarono sei corazzati alleati; gli altri
erano rimasti là, immobilizzati dal nemico.
Poi si ritirarono i neozelandesi, unitamente ai
rimanenti della Matteotti.
Purtroppo, fra i partigiani caduti vi era anche il
loro comandante. |