Il Partigiano Dartagnan       

 

 


 

 

 

 

Il Partigiano Dartagnan

Capitolo primo

Capitolo Secondo

Capitolo Terzo

Capitolo Quarto

Famiglia Cotti

 

I luoghi dove ci si riposava dopo quattro ore di prima linea erano: Casa Sassaia, Casa Assaretto, Casa Rovina, Casa Buia, Ca' di Màt.

Si facevano da ambo le parti pattuglie nella terra di nessuno. Qualcuno moriva sul posto, altri restavano feriti più o meno gravemente.

In uno di quegli scontri rimase ferito anche il comandante della brigata "Giustizia e libertà" che, da un paio di settimane, operava con noi.
Una sera ricevetti l'ordine di schierare la formazione nella zona della Ca' poichè si pensava che dalla Riva il nemico potesse fare delle puntate, specie là su quel fianco.
Portatomi sul posto cercai le alture che eventualmente potessero essere meglio difendibili. In quattro di esse feci mettere una mitragliatrice che all'occorrenza incrociasse il fuoco con le altre.
Soddisfatti del nostro schieramento commentavamo:
- Non passa neanche un topo! -
Non vi erano turni di guardia, si vigilava per tutta la notte.

Era quasi l'una dopo mezzanotte, in un buio pesto, allorchè sentii per la strada che da Vidiciatico porta a Madonna dell'Acero, un marciare cadenzato, scarpe chiodate, quindi erano nemici, ma venivano da Vidiciatico.

Come avessero fatto a passare sembrava un mistero, poichè là vi era stanziata la brigata fulmine con relativi posti di blocco e pattuglie di servizio.
Praticamente ci arrivavano alle spalle.

  Colonna nemica
Mi portai in quell'insediamento che fiancheggiava la strada di una trentina di metri. Tutti ebbero l'ordine di non sparare se non avesse aperto il fuoco quella postazione. Mi affiancai al mitragliere - Lasciamoli passare - bisbigliai dopo, vista la consistenza - decideremo poi! - Marciando per tre, come se fossero ad una parata, ci oltrepassarono.
- Non muoverti - sussurrai ancora.
Era una colonna lunghissima, forse un migliaio di uomini, sicuramente provenivano dal fronte, che ormai era giunto ad alcuni chilometri da Porretta.
Che fare? I primi tedeschi erano già oltre la curva del Torlaino, quasi un chilometro da noi ed ancora ne passavano.
Confermai l'ordine di non sparare, intanto gli ultimi si persero nel buio.
Se avessimo dato battaglia, sicuramente ne avremmo ucciso decine, ma poi saremmo stati sopraffatti. Era giusto?...
In certi casi dare degli ordini è una responsabilità pesante, molto pesante!
A Vidiciatico nessuno li aveva visti.
Comunque furono tante le valutazioni che in quel momento mi passarono per la testa, avevo sì la pistola lanciarazzi per chiedere rinforzi, ma questi li sapevo a Vidiciatico, quindi troppo lontani.
Sparare al buio? Il nemico, dopo il primo momento, avrebbe individuato le postazioni, orientandosi con le fiammate delle nostre armi.
Lanciare un bengala? Significava mettere in evidenza la nostra relativa consistenza e perciò, sapendo che i nazisti erano armati di Panzerfaust, sarebbe stato un suicidio. Queste valutazioni, fatte in un attimo, mi fecero dire: - Non sparate! -

Il giorno dopo il comando approvò la scelta.
Armando disse: - Siamo qui per combattere, ma dobbiamo anche portare a casa i nostri partigiani - come soleva dire lui - e non al macello. -

Un giorno, nell'autunno avanzato, vedemmo una jeep con tre o quattro ufficiali in divisa alleata fermarsi al comando partigiano.

Gli alleati erano arrivati a Porretta! Quindi oramai noi eravamo il fronte, poichè dietro stavano le forze alleate, davanti c'erano i nazisti.
A questo punto il comando diede facoltà a tutti quei partigiani che lo desiderassero di congedarsi.
Loro stessi si sarebbero interessati per vitto, alloggio e quant'altro necessitava fino alla liberazione completa dell'Italia.

  Forze alleate sulle jeep
Chi invece voleva restare al fronte veniva inquadrato in una nuova posizione.
Fra i persicetani che rimasero al fronte volontari vi furono:
- Serrazanetti Alessandro (Tito, di Via Permuta); - Forni Dario (Leo, dell'Accatà);
- Cotti Alberto (D'Artagnan, di Via Permuta)
Essi operarono, insieme agli alleati, come truppe d'assalto, in concerto con questi.


Ritorno a Roma

Era l'autunno avanzato del 1944, avvenuto il congiungimento con le forze alleate, sentii il bisogno di avere notizie di mio padre che viveva a Roma assieme a mio fratello e molti zii, nonchè altri parenti, di cui dalla fine di settembre del 1943, non avevo notizie.
Chiesi ad Armando un permesso per recarmi a Roma, dando la mia parola che dopo una settimana al massimo sarei rientrato.
Il Comandante mi concesse il permesso, ma dubitava del rientro da me promesso e fu questo fatto che, dopo la Liberazione, quando per la prima volta andai a trovarlo a Pavullo, lo fece ricordare di me.
Partii quindi da Lizzano dopo aver promesso il mio rientro agli amici partigiani della Morselli (scettici anche loro) con mezzi di fortuna alleati fino a Firenze, da qui era ripristinata la ferrovia.
Arrivai a Roma ovviamente senza armi e con vestiti da partigiano, cioè pietosi.
Fui ospite per una settimana dei miei zii: Vandini Mario, Cotti Amedeo e Cotti Iolanda, in Via Giulia.
Stavano tutti bene, mio padre e i miei parenti, solo di mio fratello Enrico, che aveva risposto alla chiamata del Gen. Graziani per la Repubblica di Salò, non si avevano notizie.
Mi recai a salutare gli operai della O.M.I. (Ottica Meccanica Italiana), tanti amici già al corrente della mia appartenenza alla resistenza, qualcuno a conoscenza anche di quelle fucilate a porta S. Paolo in seguito all'8 settembre.
- Resta, sarai subito assunto - mi disse il Direttore generale, unitamente a tutti i conoscenti.
Non potevo, avevo dato la mia parola.

La settimana passò presto; per il rientro, dopo aver chiesto informazioni, mi fu indicato l'ufficio assistenza partigiani.
Credo fosse di ispirazione monarchica, fatto è che mi fornì una serie di documenti scritti in inglese, francese, italiano e con tanti timbri delle forze armate alleate, su cui si chiedeva la collaborazione di tutte le autorità con cui sarei venuto in contatto nel viaggio di rientro.
Nell'ufficio, mentre attendevo che i miei lasciapassare fossero pronti vi era un'altra persona: un ferrarese di nome Luigi, il quale, asserendo di avere militato nella Brigate Garibaldi nell'Italia settentrionale voleva avvicinarsi al fronte, per essere subito a casa appena liberato il territorio ferrarese.
Furono rilasciati anche a lui documenti come i miei, ci furono dati dei soldi per il viaggio e quindi partimmo assieme in treno.
Giungemmo a Firenze e qui Luigi volle salutare un suo amico il quale invitò entrambi a cena in uno dei ristoranti più signorili di Firenze.
Si presentò come Ugolini ed aveva un grande e lussuoso negozio di pelletteria.
Dopo cena, allontanandosi da me di alcuni metri, Ugolini chiese a Luigi, indicando me: - Ma lui lo sa? - al che lui rispose: - No, No! -
Ciò mi fece sospettare molto da quel momento.
Dormimmo in un lussuoso albergo, in due camere separate, tutto pagato da Ugolini.
Al mattino, di buon'ora, c'incamminammo sulla Porrettana; fatti una decina di chilometri ci fermò una jeep con due militari di polizia americani; chiesti i documenti ci comunicarono che, oltre Firenze non si poteva andare e anche se i lasciapassare erano in regola ci caricarono sulla jeep portandoci in una caserma di carabinieri già attivata in un paese vicino.

Il maresciallo comandante ci trattò bene, mangiammo a tavola con i carabinieri, solo a sera fummo chiusi in camera di sicurezza e sul tavolaccio passammo la notte.
Notai che il mio compagno non era abituato a giacigli d'emergenza e quella notte mi accorsi pure che era armato di pistola Beretta calibro nove, in dotazione anche alle Brigate nere fasciste.
Queste cose, oltre al fatto di essere in possesso di molto denaro, aumentarono in me la diffidenza e al mattino non lo trattai più con amicizia.
Verso le dieci venne un ufficiale alleato, esaminò tutti i nostri documenti e trovatili in regola ci portò nuovamente a Firenze alla scuola Rossini - Centro Assistenza Partigiani.
Entrammo da una porta e immediatamente ne uscimmo da un'altra.
Siccome oltre Firenze non si poteva andare, perchè era considerata zona di operazioni militari, presi la strada della montagna, non più la Porrettana, ma mulattiere, alla Partigiana.
Il mio compagno mi seguiva, ma non c'era più fra noi quell'armonia di prima, si era accorto che il mio comportamento nei suoi confronti era cambiato.
Piano, piano la distanza fra me e lui aumentava, fintanto che lo persi, probabilmente avrà fatto dietro-front.
A mezzogiorno circa arrivai a Sorgo Capanne ove c'era il primo gruppo di PP (Polizia Partigiana).
Erano della formazione Morselli, la mia formazione.
Fu grande la festa che mi fecero; il giorno dopo ero in formazione a Lizzano.
Andai a comunicare il mio ritorno al Commissario di Brigata e anche ad Armando.
Tutti volevano sapere della situazione dell'Italia libera, al che rispondevo:
- È una miseria, da disperazione, con tante, troppe macerie.-
Quella situazione era penosa solo a descriverla!
Comunque, avevo mantenuto la promessa fatta ad Armando.


Attacco al Belevedere

Erano già trascorse alcune settimane, da quando la nostra brigata agiva in accordo con gli alleati dopo l'avvenuto congiungimento e quindi non sussistevano più problemi di vettovagliamento o di munizionamento, anzi anche noi ormai eravamo dotati di bazooka, arma a razzo, valida anche come controcarro.
Il nostro comando ricevette l'ordine d'attaccare la cima del Belvedere, da dove si potevano dominare due versanti, quello Nord e quello Sud, suscettibile quindi di ulteriori possibilità di avanzamento.
A notte s'iniziò, dopo un accurato esame di tutte le armi personali, ci portammo, senza essere notati, alla Querciola e qui rimase il grosso dei partigiani in quella linea di postazioni già accennata, ossia Casa Sassaia, Casa Rovina, Casa Assaretto, Casa Buia, Casa Matti.
Un linea che, dal bivio della Masera, arrivava oltre la Querciola.

Normalmente si eseguivano queste operazioni:
- scavare il terreno due metri per uno e mezzo con la profondità di settanta, ottanta centimetri;
- piazzare una mitragliatrice dopo un accurato mascheramento con frasche, in modo che il suo fuoco potesse eventualmente incrociare quello di destra e quello di sinistra;
- adibire alla postazione, oltre al mitragliere, un aiutante e due partigiani di rinforzo;
- rifornire i partigiani con una o più casse di munizioni ed una di bombe a mano.

Alla data del 12 dicembre 1944, quindi, quel tratto di fronte che andava dallo Spigolino e scendeva passando dalla Madonna dell'Acero, la Cà, bivio della Masera, (fino ad un chilometro oltre la Querciola passando sotto il monte Belvedere) era tenuto esclusivamente da forze partigiane, brigata Costrignano, prima Divisione Armando, poi brigata Fulmine.
Noi della divisione Armando quel mattino eravamo in postazione dal bivio fino oltre la Querciola.
Personalmente comandavo la formazione Morselli, al lato della strada che dalla Querciola sale verso la cima del monte dalla parte opposta della strada, ad un centinaio di metri vi era in diverse postazioni schierata la formazione dell'Alpino.
Quel mattino il comando alleato che si era insediato a Lizzano, aveva programmato l'attacco alla cima del Belvedere.
Era ancora buio quando sotto la Querciola oltre una decina di mezzi corazzati alleati già avevano i motori accesi ed appena fece giorno incominciarono la salita verso la cima del monte; al seguito, per l'attacco, vi era un gruppo di fanti neozelandesi unitamente ad un numero consistente di partigiani della Matteotti e del loro comandante Cap. Toni.
I nazisti non li aspettarono sulla cima, ma si erano appostati e fortificati alla Corona (piccolo agglomerato di case forse neanche una frazione), avevano piazzato armi anticarro ed allestito un consistente numero di postazioni per mitragliatrici dominanti tutta la zona.
Noi avevamo l'ordine di mantenere la linea di fronte.

Dopo circa mezz'ora sentimmo le mitragliatrici tedesche che in diverse avevano aperto il fuoco simultaneamente; distinguevamo dalla differenza dei colpi le raffiche dei nostri che rispondevano al fuoco nemico, poi si alternarono scoppi più possenti (erano entrate in azione le artiglierie dei corazzati alleati e dieci cannoni anticarro germanici).
La battaglia si protrasse per un paio d'ore, poi gli spari diminuirono di intensità. Sentimmo un rombo avvicinarsi verso di noi: ci sdraiammo con le armi pronte. Passarono sei corazzati alleati; gli altri erano rimasti là, immobilizzati dal nemico.
Poi si ritirarono i neozelandesi, unitamente ai rimanenti della Matteotti.
Purtroppo, fra i partigiani caduti vi era anche il loro comandante.

I tedeschi iniziarono l'inseguimento, noi li vedevamo avvicinarsi, li lasciammo avvicinare, mentre i carri armati superstiti continuavano la loro marcia fino a Lizzano.
Ormai i tedeschi erano ad una cinquantina di metri da noi, simultaneamente aprimmo il fuoco, tutte le armi pesanti ed individuali erano in azione.
La truppa avanzante ebbe un colpo d'arresto micidiale, molti restarono sul terreno, gli altri incominciarono a ritirarsi, nascondendosi e riparandosi come potevano, sempre sotto il nostro fuoco.
Poco lontano da me, l'alpino comandante l'altra compagnia, mi diede voce:
- Dartagnan, come al solito con i ribelli non si passa. -
  Con i ribelli non si passa
E li si stabilizzò il fronte per tutto l'inverno 1944/45.

 

 

 

Brigate Garibaldi - Divisione Armando - Il Comandante di Battaglione Tenente Dartagnan (Alberto Cotti)