Il
Partigiano Dartagnan
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Capitolo
Quarto
Famiglia Cotti |
Presentazione del Sindaco di Persiceto
Da qualche anno, intorno all'aprile e alla Liberazione, il
Comune promuove memorie, pubblicazioni riguardanti
gli avvenimenti del '45, la
guerra e soprattutto la fine della guerra. Si è trattato
fino ad ora di scandagli lanciati in un campo così
intricato e determinante della
nostra storia. Volutamente, non si è voluto dare la
sistematicità delle conclusioni solo celebrative; sappiamo
che anche la più preziosa
lastra marmorea finisce, purtroppo, per porre chiusura a una
storia come a una vita.
Il modo frammentato con cui si è proceduto ha toccato il tema del
"ritorno a casa" e del momento di trapasso tra occupazione e
liberazione del territorio persicetano. Si è voluto privilegiare, dire lo spunto e
l'attacco del dopoguerra, non senza l'ambizione di evocare quel diffuso
senso di uscita dalla tragedia e la speranza di tempi
primaverili, per una grande promessa di valori umani e di
pace. Nel caso presente, cambia il registro. Si tratta della storia di un
persicetano lungo l'arco della guerra bisognerebbe dire meglio delle
guerre vissuta e descritta di corsa, con un modo spezzato e in
action, come se si trattasse di uno sceneggiato per un film.
La cosa sorprendente, tutta da assaporare, consiste
nella mancanza di consapevolezza
da parte dell'autore: non c'è la malizia delle gesta e
dell'artefatto libresco. Le diverse
situazioni stanno a tanti quadri di come gli italiani,
non solo persicetani, hanno vissuto nella
guerra.
Non tutte le scene sono di azione. Il laboratorio di modellismo
romano, dove il nostro persicetano era capitato per sentir
ragionare di bombe astruse, è una perfetta metafora
teatrale della retorica guerrafondaia. Al contrario, l'esperienza della spedizione
italiana in Russia con l'Armir è vissuta dal nostro come una cosciente e profonda
osservazione delle circostanze, come in un percorso di presa
di coscienza sulla guerra, più che una
partecipazione alla stessa.
Incredibile, di nuovo a Roma, il nostro si
trova tra gli eroici granatieri
di Porta San Paolo, appostato dietro a un albero con un
fucile in mano; la prima arma impugnata, se non sbaglio. Vengono in
mente tante scene del Rossellini,
neorealista, di italiani in giacchette strette e
impolverate, male armati, lungo le strade straziate delle
più importanti città italiane. Poi,
segue la scena ampia, quasi paesistica dell'Appennino.
Qui
il nostro combatte; e come! C'è l'incontro con i
russi, gli stessi che prestano
i colbacchi nelle foto di gruppo delle squadre partigiane.
Nei boschi e crinali di Montefiorino arriva
pure il mito di Stalingrado e della ritirata dei carri armati tedeschi.
C'è una bella distanza con i riferimenti dell'«andare in montagna»,
ripetuti da più recenti rivoluzionari che mai erano stati in
montagna, e mai ci sarebbero andati.Al fondo, una
considerazione.
Alberto è stato uno dei pochi persicetani a ritornare a casa armato,
senza la retorica con cui le armi erano state distribuite ed
esaltate a tanti compaesani all'entrata in guerra; da
lui ci viene l'esempio dell'addio alle armi e del ritorno a quel banco di
modellista per ricostruire macchine di pace.
Alberto è stato un "duro", come si dice di nuovo; quando la
contrapposizione è stata veramente durissima e i tedeschi
presidiavano blindati il nostro Appennino.
Io l'ho conosciuto un po' dopo, quando,
trasformate le armi in aratri, di duro è rimasto soltanto il
convincimento del mantenere la pace insieme ai fondamentali diritti della
sincera libertà.
E poi... una insostituibile simpatia, da plurisecolare contadino
emiliano.
Antonio Nicoli
-
Sindaco di Persiceto. |
Tanti anni
sono ormai trascorsi dalla fine di quella che oltre ad
essere stata la seconda guerra mondiale, ha rappresentato
anche per noi italiani un'immane tragedia.
Chiunque si sia
trovato in quel guado, ha vissuto una sua personale odissea,
trovandosi di fronte a scelte che mettevano a nudo
sentimenti profondi come il coraggio, la solidarietà, la
paura, l'eroismo, il dolore.
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Antifascisti impiccati |
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Con questa
testimonianza ho inteso fissare i miei ricordi, senza alcuna
presunzione che non fosse quella di ribadire i sacrifici di
una generazione.
Tutto ciò che
oggi è goduto come un diritto naturale, senza un atto
d'origine, si sappia che invece ha avuto un inizio e un
prezzo.
Chi c'era, sa quanto alto; e vuole dirlo a chi è
venuto dopo, o non ricorda.
Alberto Cotti
Caro compagno generale Armando,
in tutte le occasioni che abbiamo avuto d'incontrarci, di vederci, di parlarci,
dalla fine della lotta partigiana, sempre a noi tutti, combattenti
al tuo fianco, hai fatto insistentemente pressione perchè
ognuno lasciasse uno scritto, un ricordo, una testimonianza
della nostra lotta, dei nostri sacrifici, dei nostri lutti
per quegli ideali di libertà e di giustizia cui ognuno di
noi aspirava.
Lo scopo è quello di portare a conoscenza delle giovani
generazioni la situazione italiana di quel particolare
momento storico, attraverso la viva voce di chi l'ha
vissuto, affinchè i giovani possano avere un maggior numero
di elementi per giudicare e per riflettere. |
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Il Generale Armando (a dx) |
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A distanza di
tanti anni, mi sono cimentato, anche se la memoria non è
sempre perfetta, specie in quelle sfumature, che seppure
interessanti, non lasciano impressa un'impronta profonda.
Ancora una volta ti ho ubbidito; purtroppo con mio grande
rammarico, non potrai leggere queste pagine, mai più.
Dartagnan
Capitolo Primo -
Una generazione di guerrieri e di conquistatori
Noi eravamo quella generazione che, secondo gli
obiettivi del Duce, avrebbe dovuto fare dell'Italia un popolo di
guerrieri e di conquistatori, per cui, fin dall'età di sei - sette
anni ci si faceva indossare una divisa (Balilla) e alla domenica mattina ci si
recava in Piazza Giosuè Carducci per fare istruzione militare.
Inquadrati in diversi gruppi, con in testa alcuni
tamburini (figli di gerarchi) affiancati da ragazzini della nostra età,
resi graduati dai genitori (anch'essi gerarchi), per tutta la
mattinata si marciava avanti e indietro per il piazzale; alcuni erano in possesso
di un fac-simile, formato ridotto e giocattolo del modello 58,
moschetto in dotazione ad una parte del nostro esercito (gli altri erano
ancora dotati del modello 1891).
I figli dei benestanti formavano un gruppo a sè,
avevano un fucile e disponevano di una divisa più raffinata.
Normalmente venivamo comandati da un gerarca
anziano che, in alta uniforme, con cinturone e
pistola, stivali lucidissimi, fez fuori
ordinanza con tutta la frangetta laterale, si
pavoneggiava, passando davanti alla popolazione,
facendo anche tintinnare una serie di croci e di
medaglie, "patacche" molto spesso avute operando da
scritturale, imboscato in qualche distretto o
fureria. |
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Gerarchi in parata |
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